Saggio su Carlo Rosselli di Paolo Ragazzi

Saggio su Carlo Rosselli

di Paolo Ragazzi

 

Carlo Rosselli

Quando penso a Carlo Rosselli penso a vite spezzate, a intelligenze vivissime soffocate e travolte dal fanatismo socialdemocratico o dal fascismo, come quelle di Rosa Luxemburg, di Jean Jaurès, di Piero Gobetti, di Antonio Gramsci.

Gli esordi di Carlo Rosselli descrivono una parabola opposta a quella della Luxemburg. Se in quel caso possiamo parlare di ostilità agli ideali nazionalistici e di pacifismo, qui dobbiamo mettere in evidenza l’interventismo democratico del giovane Rosselli. La battaglia che si preparava era l’occasione del  riscatto di una nazione rispetto al dominio austriaco e un’occasione imperdibile per completare il processo di unificazione nazionale. Alla guerra la famiglia Rosselli sacrificherà il figlio maggiore, Aldo, morto in battaglia nel marzo del 1916. D’altronde Carlo Rosselli non era marxista e non lo sarà mai: su questo non v’è dubbio. Tuttavia, come vedremo, le distanze tra Rosa Luxemburg e Carlo Rosselli forse sono meno siderali di quello che si può credere.

Gli anni del dopoguerra sono gli anni della formazione. Bisognava recuperare studi più pregnanti di quelli che poteva avergli offerto la scuola professionale cui l’aveva indirizzato la madre. Ma bisognava anche correggere l’idea malsana e malnata di una guerra levatrice di un’umanità coraggiosa. Il lavacro c’era stato, ma di morte e sofferenza. La guerra era ormai – con Adolfo Omodeo – quel “mitico d’ardo d’Artemide” e quel “destino cieco” da cui affrancarsi[1].

«La verità è che nel ’20, con la “distruzione delle speranze” avvenuta in guerra e la sconfitta sempre più chiara dell’interventismo democratico, si fa strada un profondo ripensamento in Rosselli, che (…) giunge alla condanna di quella guerra cui pure ha partecipato con entusiasmo e alla comprensione dei motivi che hanno spinto i socialisti al neutralismo»[2].

In quel tempo la cosa più bella che accadde nella vita di Rosselli fu l’incontro con Gaetano Salvemini (insieme alle frequentazioni con Turati e Treves) nella primavera del 1920. Quel Salvemini che rappresenterà per sempre un saldo punto di riferimento, anche se non mancheranno giudizi difformi da quelli del maestro. Sin da subito. La tesi di laurea di Rosselli sul sindacalismo europeo del luglio 1921 fu tempestata di critiche feroci da Salvemini che però non si astenne dal lodare la capacità non comuni dell’autore di muoversi su tematiche così difficili.

Carlo Rosselli economista.

Un’impietosa astuzia della ragione accende il nostro interesse  su  contraddizioni che, come travagliavano il mondo della socialdemocrazia e del marxismo, allo stesso modo non disertavano il campo del liberalismo. Se la cifra del marxismo della Luxemburg era il suo apprezzamento per la libertà, la cifra del liberalismo rosselliano era l’attenzione verso il movimento operaio non solo come vittima dello sfruttamento capitalistico, ma come soggetto politico in grado di esprimere una visione della società. Così accadde, ad esempio, che sulla questione dell’Unità sindacale le posizioni di Carlo Rosselli si rivelassero più radicali di quelle di un Turati o dello stesso Salvemini. Il primo nella sua rivista “Critica sociale” aveva ospitato, nel corso di un trentennio,  interventi di Einaudi, Loria, De Viti De Marco che escludevano la prospettiva di un’unificazione dei sindacati in obbedienza al sacro principio liberale della concorrenza anche tra le forze del lavoro. Rosselli invece affermerà, a più riprese, che l’unità sindacale rappresentava un’adeguata risposta ai processi di unificazione che avanzavano nel mondo capitalistico.

Solo con il «monopolio rappresentativo» dell’offerta di lavoro si raggiunge la parità tra i due contraenti sul mercato. La concorrenza appartiene alla preistoria e i suoi effetti sono devastanti in termini di «sfruttamento sistematico, atroce e antieconomico dei lavoratori», di riduzione del salario sotto i livelli di sopravvivenza, di prolungamento dell’orario di lavoro[3]. Questi in linea di massima gli argomenti utilizzati da Rosselli (semplifichiamo ovviamente!), oltre che nella tesi di laurea del ’23[4], in una serie di articoli pubblicati su La Riforma sociale tra il ‘23 e il ’24 contro il dogma della concorrenza anche in tema di rivendicazioni operaie.

A questi argomenti replicherà, sulla stessa rivista, uno dei direttori: Giuseppe Prato, chiamato più volte in causa da Rosselli. Prato intanto mette in dubbio che un’unica centrale sindacale possa assicurare salari maggiori; in secondo luogo è convinto che essa piuttosto comporti sacrifici finanziari degli stessi operai per mantenere i burocrati del sindacato e, infine, che gli effetti negativi  sarebbero ricaduti sugli stessi operai, in quanto consumatori, in seguito all’aumento dei prezzi.

La risposta di Rosselli è di alto profilo. Il monopolio della rappresentanza sindacale, lungi dal rappresentare un fattore destabilizzante, costituisce una garanzia anche per la stabilità dei prezzi e quindi, indirettamente,  un significativo fattore di coesione. In secondo luogo la pressione operaia per salari più alti, oltre a rappresentare un potente stimolo all’innovazione tecnologica, «aumentando la produzione, aumenta il potere d’acquisto delle masse e fa sviluppare le industrie»[5]. L’approdo non è ancora, come si può vedere, alle politiche keynesiane di sostegno alla domanda, ma  siamo nei pressi.

Siamo al cospetto – scrive Rosselli – di «una nuova, e se non altro, originale dinastia che, attraverso il dominio della vita economica del mondo, già dirige più o meno segretamente la politica delle “democrazie” d’Europa e d’America» e, se così stanno le cose, «l’ultima trincea che resta è quella del corpo organizzato dei produttori. Quanto più vasta e unitaria sarà l’organizzazione dei produttori, tanto più il suo interesse si identificherà con quello della massa consumatrice»[6].

Insomma, al monopolio capitalistico si può e si deve contrapporre l’unità della classe operaia. D’altronde sono riconosciute le simpatie del fondatore di Giustizia e LIbertà, al pari di quelle di Piero Gobetti, per l’esperienza dell’”Ordine Nuovo” e dei consigli di fabbrica. Da questo punto di vista la formazione di Carlo Rosselli risente più verosimilmente di De Ruggiero e dei fabiani inglesi in luogo di un Salvemini o di un Croce.

Carlo Rosselli coltiva i suoi interessi per la teoria economica negli anni che vanno dal 1923 al 1926. Già la sua seconda laurea a Siena era stata preparata da un accurato lavoro di ricerca e da colloqui avuti con alcuni economisti dell’epoca come Einaudi, Jannaccone e Cabiati. Fu proprio quest’ultimo ad aiutarlo nella sua carriera universitaria prima come assistente volontario di Einaudi alla Bocconi e poi a Genova dove insegnerà “Istituzioni di economia politica” presso il R. Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali. In questi anni, arricchito anche del viaggio compiuto in Gran Bretagna, approfondirà le sue conoscenze economiche. La dimostrazione di questo studio ci viene offerta dal testo recentemente pubblicato da Biblion Edizioni in cui sono raccolti i suoi appunti inediti[7]. Si tratta di note sparse di difficile lettura attraverso le quali l’autore entrava in contatto con gli economisti classici, ma anche con gli indirizzi più recenti del pensiero economico: da Edgeworth a Marshall, da Pantaleoni a Pigou. Il pensiero economico del tempo era fortemente caratterizzato dalle analisi marginaliste nei confronti delle quali Rosselli nutriva molte riserve, anche se, a tratti, ne utilizzava il linguaggio. Alla base del marginalismo c’è il rifiuto della teoria del valore che era stata di Smith prima e di Marx dopo, la quale affermava che il valore di una merce derivasse dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla. I marginalisti affermavano invece che, piuttosto che al tempo di lavoro, bisognasse guardare alla soddisfazione economica sia del produttore che del consumatore. Il soggetto economico orienta le sue scelte e le sue preferenze solo in relazione ai sacrifici iniziali e alle soddisfazioni che ne può ricavare. Se i primi sono inferiori ai secondi, egli persisterà nella sua azione fino a quando l’incremento di sacrificio non superi l’incremento di soddisfazione. Alla base del marginalismo Rosselli ritrova la fedeltà ad un principio che è filosofico prima di essere economico: l’utilità, come era stata teorizzata da Bentham, ovvero la maggior felicità possibile per il maggior numero di persone. E’ il medesimo principio che spingeva Smith ad abbandonare la benevolenza affidandosi piuttosto all’egoismo dell’individuo: questo il motore instancabile da cui attendersi ogni incremento di ricchezza. Le due teorie (quella dei classici e dei marginalisti) convergono d’altronde nello stabilire che l’equilibrio soddisfacente sarà raggiunto solo in condizioni di libero mercato e di concorrenza perfetta. Se una novità presentano le teorie marginaliste rispetto all’economia classica è data dalla separazione dell’economia dalla morale. In tutto ciò Rosselli non vede alcun progresso, quanto un rischio che era estraneo ai classici.

Sentiamo a questo punto l’ammonimento diffuso in tutti i manuali della scienza: essere vero che l’economia ha fatto propri i principi cardinali della filosofia utilitaria, ma dichiarare essa espressamente di non avere rapporto di sorta colla morale. Che vale questa obiezione? Poco o niente. L’affermazione della neutralità morale non è che un ripiego attuatosi in un secondo tempo quando la filosofia utilitaria cadde per non più rialzarsi sotto i colpi della critica: gli economisti classici non proclamarono mai questa loro neutralità. (…) E siccome noi continuiamo a costruire sulla base dei classici, non possiamo neppure oggi negare valore a quel processo formatore di premesse e soprattutto non possiamo negare la necessità di una revisione di fondo. Perché ciò fosse possibile, bisognerebbe che a queste premesse noi potessimo arrivare per vie totalmente diverse da quelle per le quali vi giunsero i classici. Il che, se non erro, fino ad oggi non fu fatto da nessuno[8].

Bene dunque Il ‘principio utilità’, ma non sempre ciò che è utile per l’individuo è tale per la collettività. Tutti gli uomini aspirano alla felicità, ma al suo raggiungimento si frappongono miseria, ignoranza, cattive condizioni di salute, scarse opportunità, guerra, sovrappopolazione, contesti familiari inadeguati…. Bisogna muoversi all’interno di queste contraddizioni se vogliamo veramente fare un passo avanti e all’economista è richiesto un impegno massiccio nella soluzione di questi problemi. Così ci sembra di dover interpretare il punto di vista di Rosselli: «La felicità dell’uno non vada a danno della felicità dell’altro»[9].

Da qui il grande capitolo della legislazione sociale e dell’intervento statale che, secondo gli economisti classici, si deve limitare esclusivamente alle grandi ingiustizie e alla tutela dei diritti individuali mentre, per altri, deve investire anche il modo in cui la ricchezza si forma e il potere economico viene esercitato. Rosselli si schiera con questi “altri”. «Individualismo, egualitarismo, socialismo, ottimismo, ecco i quattro articoli della fede utilitaria integrale»[10]. Da un lato i propugnatori di un “ordine naturale provvidenziale”, dall’altra la tendenza egualitaria e socialistica dispersa in variatissime forme. Ma non occorre essere socialisti per dare alla morale il giusto rilievo in economia. Quando Marshall pone il problema dei salari che, superando una certa soglia minima, rappresentano un beneficio anche per la collettività, fa una valutazione di carattere etico, ben oltre i compiti affidati all’economista.

Gli Scritti inediti di economia (1924-1927) presentano in appendice il testo scritto da Rosselli durante la reclusione nel carcere di Savona con l’accusa di avere organizzato la fuga di Turati: Premesse per la realizzazione economica, laddove “realizzazione” sta per “razionalizzazione”.

Bisognerebbe riportare per intero il testo, ma mi limiterò  a sottolineare alcuni aspetti che ritengo di grande interesse. Sorvolo sulla critica alle teorie economiche centrate sul laissez-faire di cui Rosselli registra il tramonto. Sempre più gli Stati adottano strategie finalizzate a coordinare, indirizzare e correggere gli sforzi economici dei singoli paesi in simbiosi con «molteplici processi di fusione» che stanno cambiando la natura del capitalismo. Il dato più interessante mi sembra – a conferma di quanto avevamo rinvenuto negli Appunti – la critica serrata alle teorie marginaliste del tempo proprio a partire dal linguaggio utilizzato da queste ultime. Se il paradigma è “il massimo benessere per il maggior numero di persone”, questo lascerebbe pensare ad un approdo lontanissimo dalle attese dei propugnatori di queste teorie, perché «supponendo uguali capacità di godimento degli individui», ne consegue che «la quantità di beni produce il massimo utile quando essa quantità si  suddivide in parti uguali»[11].

Non si tratta che di una elementarissima  applicazione del principio di utilità decrescente dei beni (quantità successive di un bene poste a disposizione di un unico soggetto gli procurano soddisfazioni progressivamente decrescenti sino all’indifferenza o alla repulsione). Ma di un’applicazione in realtà rivoluzionaria, perché proclama vera in teoria nientemeno che la tesi comunistica della ripartizione della ricchezza e del reddito in parti uguali, come quella capace di assicurare il massimo benessere alla collettività. (…) Se i presumibili 100 miliardi costituenti il reddito nazionale italiano fossero attribuiti per metà ad una piccola frazione della popolazione e per metà alla grande maggioranza, le soddisfazioni ricavate sarebbero diverse e con tutta certezza minori che se i 100 miliardi fossero distribuiti meno inegualmente. Ciò che conta dunque in ultima analisi non è la massa materiale dei beni, quanto la massa delle soddisfazioni. Il criterio della massima produttività va per lo meno sostituito con quello della massima soddisfazione economica, del massimo benessere sociale[12].

La crisi del capitalismo è nelle cose e la critica non può lasciare il lavoro a metà. La soluzione non sta negli accorgimenti  tecnici, né nei «palliativi della compartecipazione agli utili» perché questi non tengono conto di fattori esterni come i grandi sommovimenti economici e le guerre. In estrema sintesi possiamo dire che, risalendo  alle cause dei fenomeni e non limitandosi ai suoi effetti, non bisogna essere – sostiene Rosselli – pregiudizialmente contrari «a ogni tentativo rinnovatore che si proponga di eliminare o attenuare lo stimolo del profitto personale nella organizzazione dei singoli rami della produzione»[13]e, in secondo luogo, occorre adottare «il metodo della riforma graduale». L’esempio è quello che ci viene fornito dal Regno Unito piuttosto che dalla Russia. Qui l’Ufficio progetti ha avviato una pianificazione economica (e dunque una ‘razionalizzazione’) che però incontra parecchi limiti. I ceti agricoli sono sacrificati alle politiche industriali, le campagne alla città. Ma tutto ciò, associato ad una chiusura nei confronti dei beni di consumo esteri, determina un alto livello nel prezzo dei manufatti e dunque un effetto collaterale che non aiuta l’economia. Non sappiamo – dice Rosselli – se queste storture saranno corrette in futuro. Certo è che «non si può parlare evidentemente di razionalizzazione economica quando il punto di vista economico è sistematicamente subordinato al politico»[14]. Ma d’altronde non si può neanche indugiare più di tanto nella previsione di molti conservatori per i quali

il sommovimento russo è l’esatto doppione di quello francese e segnerà non la disfatta ma il vero inizio di un grandioso sviluppo del capitalismo marca occidentale. (…) L’esperienza russa, al pari di quella inglese, francese, tedesca ha un valore suo e una legge sua. Forme pure e semplici di vita economica non ne esistono. Si deve parlare di tendenza, di prevalenza di tipi, mai di esclusività. La Russia d’oggi non è né uno Stato capitalistico, né uno Stato. <…> E’ una forma intermedia, ma senza forma, se si vuole, irriproducibile[15].

Ovviamente tracce del suo pensiero economico si trovano sparse nei vari articoli pubblicati su La critica sociale, La rivoluzione liberale e Il quarto Stato. Degno di nota è il passaggio contenuto nell’articolo pubblicato su La Rivoluzione liberale del 25 marzo 1924, laddove Rosselli, occupandosi del movimento operaio inglese e della figura di George D. H. Cole, si esprime come segue:

Cervello realista, spirito freddo, equilibrato, dalla educazione marxistica veramente eccezionale in terra inglese, é G. D. H. Cole, di gran lunga il più originale fra i gildisti. La sua critica contro il collettivismo accentratore e la rosea ed anonima democrazia dei consumatori é spietata. Egli ha sentito come pochi altri, potentemente influenzato dal sindacalismo rivoluzionario, che il succo della rivoluzione socialista non sta tanto in un mutamento delle condizioni e dei metodi di distribuzione, quanto nel mutamento dei metodi di produzione e conduzione delle imprese. Attraverso una propaganda decennale é riuscito ad imporre al movimento sindacale, dando una forma concreta alle vaghe per quanto sempre più incalzanti esigenze e aspirazioni delle masse, i due motivi fondamentali di lotta: controllo operaio e autogoverno nell’industria.

L’operaio cosa, numero, materia grigia estranea alla vita della fabbrica moderna deve riacquistare in seno alla fabbrica, e non fuori come vogliono i Webb, tutta la sua personalità. Il problema operaio é problema di coscienza di dignità, di libertà. Gli operai stessi non si accontentano più del semplice “miglioramento” economico; il fine che intendono raggiungere colla Trade-Union si allarga, si sposta; vogliono divenire attivi compartecipi della vita della azienda[16].

 

Il delitto Matteotti.

Il fascismo non ha certo dovuto attendere le “Leggi fascistissime” per mostrare il suo volto violento. Al netto delle innumerevoli azioni squadristiche compiute contro i partiti e le organizzazioni della sinistra, alle quali qualcuno potrà opporre una violenza di segno contrario, Aldo Garosci, nella sua biografia di Carlo Rosselli, racconta un episodio del 1920, protagonista Italo Balbo che sarà uno dei quattro triumviri del fascismo. Il Nostro doveva dare un esame di diritto internazionale presso l’università di Firenze. Al culmine dell’esame, dopo un colloquio disastroso, il professore disse che chiaramente non poteva convalidarlo. Al che Italo Balbo non mancò di inveire contro il malcapitato (nonché mingherlino) professore battendo un pugno sul tavolo e dicendo con fare intimidatorio «O mi dà il 18 o va a finire male»[17] Certamente stiamo riportando un fatto secondario che può anche suscitare ilarità, la stessa con cui Carlo Rosselli, nel racconto di Garosci,  ricordava l’episodio. E’ tuttavia indicativo, già allora, della tempra degli uomini che si accingevano a prendere in mano il paese. Quando si posticipa la nascita del regime al discorso del 3 gennaio 1925 o alle leggi fascistissime, si dimentica che il Gran Consiglio del Fascismo fu istituito già durante il primo governo Mussolini, insieme alla creazione delle Milizie Volontarie per la Sicurezza Nazionale. Il primo istituto avrebbe surrogato il parlamento, il secondo avrebbe creato un milizia a totale disposizione del Partito.

La violenza gratuita continuerà ad essere esercitata nei primi due anni del governo Mussolini, ma il salto di qualità si verificherà con il sequestro e l’uccisione di Giacomo Matteotti nel giugno del 1924.

L’assassinio di Matteotti per ordine del presidente del consiglio o, almeno dei membri dirigenti del partito al potere (che tanto fu immediatamente noto al paese), significava chiaramente la fine della finzione parlamentare, della finzione del blocco nazionale, della finzione liberale, attraverso la quale fino allora, nel regime personale mussoliniano, vecchia Italia e stato totalitario squadrista avevano convissuto.[18]

Aggiungo la fine del cosiddetto “costituzionalismo”, ovvero l’illusione delle forze di opposizione che, essendo il fascismo una parentesi indecorosa delle istituzioni, si potessero ristabilire, da lì a poco, le ordinarie procedure democratiche, il re potesse riprendere in mano i destini del paese e Mussolini tornare ai suoi inconcludenti manipoli.

Questa illusione continuerà a persistere ancora dopo l’assassinio di Matteotti nelle scelte dell’Aventino che, non a caso, non furono condivise da Carlo Rosselli; come non poche riserve, secondo Garosci[19], suscitavano gli atteggiamenti prudenti e attendisti dell’opposizione intorno alla pubblicazione dei famosi “memoriali” che inchiodavano  Mussolini alle sue responsabilità penali. L’opinione pubblica sapeva (anche perché una parvenza di libertà di stampa era ancora in vigore), il re era stato messo al corrente, ma socialisti, cattolici e repubblicani tergiversavano.

D’altronde il sovrano aveva rinunciato a chiedere le sue dimissioni, la chiesa si chiudeva in un complice silenzio e, addirittura, il presidente del Consiglio italiano, dopo avere incassato il voto favorevole di Benedetto Croce su una mozione di sfiducia del parlamento, poteva gloriarsi degli elogi che gli venivano da un già celebre ministro del governo inglese: Winston Churchill.

In questo contesto Mussolini gioca le sue carte con il discorso del 3 gennaio 1925, anche qui senza che nessuno si alzasse in parlamento ad esprimere tutto il suo sdegno, come al contrario aveva fatto Matteotti nel denunciare brogli e intimidazioni avvenute nel corso della campagna elettorale del ’24.

L’8 giugno 1934 Carlo Rosselli, con un articolo pubblicato su Giustizia e libertà ricorderà ancora quegli eventi:

Ci siamo riletti in questi giorni il discorso che Turati pronunciò il 27 giugno 1924 in memoria di Matteotti davanti all’assemblea dei deputati dell’opposizione. Nell’atmosfera di generale esaltazione di quei giorni il discorso ebbe vastissima eco e fu giudicato un capolavoro di umanità e di stile. Oggi lascia freddi, quasi urtati. Possibile che il 27 giugno 1924 l’opposizione potesse tenere un linguaggio simile? (…)

Come certificato d’impotenza non c’è male. L’Aventino, a cui i giovani chiedevano in quei giorni di rinnovare il mito della “Pallacorda” rivendicando di fronte alle masse il potere, l’Aventino invocava da Re la dittatura dei generali. Continuo ad invocarla sempre, nell’ottobre, nel dicembre ’24, dopo il 3 gennaio con un machiavellico disinteresse. (…) L’illusione dell’Aventino riposava sulla mancata coscienza della gravità della sconfitta subita dalle forze operaie tra il 1921-22, non solo in Italia ma in tutta Europa, Mancata coscienza  non solo nei capi, ma nelle masse, e di tutti i partiti, comunista compreso.

Fino al giugno del 1924 i partiti di opposizione erano vissuti in una situazione falsa, iperbolica, come certi falliti che continuano a godere di credito e a condurre una vita lussuosa fino a quando l’iniziativa di uno qualunque dei creditori determina il crollo totale. L’opposizione era stata battuta nelle strade, ma a causa del compromesso iniziale cui Mussolini aveva dovuto piegarsi per salire al potere, aveva conservato a “Palazzo” una situazione di privilegio. La Camera, eletta nel 1921; la stampa idem; in tutti i corpi dello Stato il fascismo era appena tollerato.

Questa situazione maggioritaria doveva riuscire fatale all’opposizione, mentre avvantaggiava singolarmente Mussolini che proprio da questa debolezza formale ricavava il massimo di dinamismo. Mussolini, non avendo i valori legali, apparenti, badava ai sostanziali e soprattutto alla forza, alla giovinezza, all’iniziativa, all’attacco; le opposizioni, avendo conservato per concessione del dittatore (“Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia…”) le posizioni legali, si battevano sul terreno formale e morale, contestando la validità giuridica dei decreti mussoliniani.[20]

Il fatto è che le forze di sinistra erano divise tra di loro e al loro interno. Di più la divisione riguardava, oltre ai partiti, le generazioni, attraversando anche le famiglie come accadrà per gli Amendola padre e figlio o i fratelli Rosselli.  Alla generazione dei Turati, dei Treves, dei Croce, degli Amendola (padre) refrattari ad ogni violenza e rispettosi delle prerogative del parlamento, prudenti e temporeggiatori, si contrapponeva la generazione dei Gobetti, dei Rosselli, dei Salvemini, e di quanti davano la sveglia, proponendo un’azione più incisiva. La saggezza della hegeliana nottola di minerva contro l’ardore e la freschezza dell’aquila alla prime luci del giorno: così si esprimerebbe Michael Walzer.

In realtà le divisioni non erano solo frutto di temperamenti diversi, quanto di letture divergenti riguardo al fenomeno fascista. Croce vedeva nel fascismo un corpo estraneo non solo rispetto al Risorgimento, ma rispetto alle stesse istituzioni democratiche. Viceversa Gobetti, Salvemini e Rosselli facevano risalire il fascismo alle modalità in cui si era formato il Regno d’Italia (“Il fascismo come autobiografia della nazione”) o a vecchie tare che inibivano al popolo italiano un pieno esercizio della libertà. Per i comunisti il fascismo rappresentava la reazione scomposta della borghesia capitalistica alle conquiste della classe operaia. Da queste letture derivavano sensibilità, strategie e comportamenti diversi.

Anche i comunisti avevano accusato l’Aventino di nullismo, ma da un altro punto di vista. Dopo il discorso del 3 gennaio l’Unità, organo del partito comunista, ribadisce:

La spada di legno dell’Aventino cade infranta, ma il fascismo – la borghesia fascista – cerca invano la sua salvezza nel ritorno al metodo terroristico. La riscossa immancabile del proletariato si organizza oggi attorno al Partito Comunista nei Comitati operai e contadini. Indietro non si torna. Viva la rivoluzione proletaria[21].

Nessuno spazio dunque alla collaborazione con frange della borghesia o con repubblicani e socialisti considerati alla stregua di traditori e collaborazionisti.

Il gennaio 1925 è anche il mese e l’anno in cui un gruppo di giovani intellettuali da Calamandrei a Ernesto Rossi, da Gaetano Salvemini a Nello Traquandi e, ovviamente, allo stesso Carlo Rosselli che ne era l’ispiratore, si riunirono a formare la redazione del “Non mollare”, il primo giornale clandestino dell’antifascismo. Il suo compito non era, ovviamente quello di “dare la linea”, ma sicuramente di rappresentare, in un clima diventato ormai da caccia alle streghe, una vigorosa opposizione al regime. Nella testimonianza di Ernesto Rossi quel titolo stava ad indicare «proprio quello che volevamo dire: un rimprovero, un incitamento, un comando a tutti i caca stecchi, che con mille ragioni dimostravano che ormai non c’era più nulla da fare; a tutte le anime pavide che già accettavano il fascismo come un fatto compiuto, adattandosi alla servitù per timore del peggio»[22]. Non Mollare sarà il primo foglio clandestino del ventennio fascista e la sua notorietà è legata alla pubblicazione, nel febbraio 1925, del cosiddetto “Memoriale Filippelli”. Dopo l’assassinio di Matteotti tutti i soggetti a vario titolo invischiati nel delitto Matteotti scrivevano memoriali temendo di essere presto “scaricati” dall’entourage di Mussolini: da Amerigo Dumini (l’accoltellatore di Matteotti) a Cesare Rossi, capo dell’Ufficio stampa, a Aldo Finzi, sottosegretario agli interni costretto alle dimissioni. Ma, dei vari memoriali, quello di Filippelli, direttore del quotidiano fascista “Il corriere italiano”, era il più esplicito in ordine alle accuse rivolte a Mussolini di essere il mandante del delitto (successivamente, nel settimo numero, pubblicherà anche il memoriale di Cesare Rossi).

Alcuni “distributori” del Non Mollare, come l’avvocato Consoli e Gaetano Pilati saranno trucidati dai fascisti, altri li ritroveremo in Giustizia e Libertà e, da qui, direttamente, nei gruppi che organizzeranno la Resistenza tra il ’43 e il ’44.

Carlo Rosselli oramai medita seriamente di lasciare l’università per dedicarsi a tempo pieno alla lotta antifascista. Cosa che avverrà molto presto. Non prima comunque di aver fondato con Pietro Nenni la rivista Il Quarto Stato.

Il 18 settembre 1925 il Partito Socialista decide di uscire dall’Aventino e il mese dopo Pietro Nenni invia una “lettera ai compagni” sull’unificazione con il Partito Socialista Unitario. Con un ritardo imperdonabile rappresentava comunque l’ultimo tentativo di costruire un fronte più ampio con il Partito d’Azione di Emilio Lussu e il Partito Repubblicano. La lettera, prima brutalmente accantonata, fu pubblicata dall’Avanti solo nel dicembre 1925[23]: segno delle resistenze che ancora incontrava nel partito una simile proposta. Nenni fu costretto alle dimissioni e così, libero da vincoli di partito, si disponeva ad accettare la proposta avanzata da Rosselli di dar vita alla nuova rivista. Sabato 27 marzo 1926 uscirà il primo numero.

Sono questi gli anni in cui Carlo Rosselli chiarisce il suo punto di vista sia nei confronti della tradizione liberale, sia rispetto all’ideologia socialista. Con la prima i conti li aveva fatti nell’estate del 1924 pubblicando l’articolo Liberalismo socialista sulla rivista La Rivoluzione liberale di Gobetti. In questo scritto Rosselli si chiedeva come  fosse possibile che personaggi come Antonio Salandra, Luigi Albertini, Luigi Einaudi, Piero Gobetti e Giovanni Amendola, lontanissimi tra di loro per formazione e sensibilità, potessero tutti dirsi liberali. Evidentemente la “casa liberale” era così grande e comoda da potere ospitare culture e opzioni politiche molto diverse, non mancando di sottolineare come questa ‘babele di voci’ non esisteva nell’Ottocento, quando liberale era sinonimo di laicità, di opposizione ad ogni forma di assolutismo, di anelito alla libertà per i singoli come per i popoli. Questa coesione, nel tempo, era andata smarrita.

Il contributo di Rosselli al dibattito sulla natura e sull’ideologia del liberalismo consistette nella distinzione tra il liberalismo come sistema e il liberalismo come metodo. I fautori del primo lo immaginavano come un insieme di principi economici, sociali e giuridici immutabili, vale a dire il “capitalismo borghese”. Accettando la libertà di religione, di parola, di stampa e di associazione, il sistema vi aggiungeva la libertà della proprietà privata illimitata, il diritto alla successione, la libera impresa, il libero scambio e lo Stato concepito come un organo di polizia (Il guardiano notturno). Per quelli che, viceversa, ritenevano il liberalismo un metodo, la sua premessa fondamentale era che il libero convincimento della maggioranza costituiva il modo migliore per pervenire alla verità. (…) Il liberalismo come metodo era il “minimo comune denominatore” della società civile[24].

A questo va aggiunta l’incrollabile convinzione che le libertà civili e politiche, senza giustizia sociale, sono delle chimere. «Non per nulla i popoli più poveri ed arretrati in fatto di sviluppo economico sono più facile preda alla dittatura e alle involuzioni in sede politica»[25].

I conti con l’ideologia socialista Rosselli li farà con la pubblicazione sul Quarto Stato dell’editoriale Autocritica il 3 aprile 1926. Rosselli si chiede quali siano le ragioni della sconfitta e risponde scrivendo che queste ragioni non vanno cercate in qualcosa di esteriore o di imponderabile. «Siamo noi gli autori del nostro bene e del nostro male. Coloro che si rifugiano nel determinismo pseudo-marxista per giustificare il loro stato di passivismo e di supina rassegnazione, coloro che attendono la salute dagli errori degli avversari e dal fatale svolgersi delle cose, mostrano di non avere inteso lo spirito profondo di Marx, che è uno spirito di combattimento, e davvero non si capisce che stiano a fare nei partiti e nelle organizzazioni»[26].

Ecco dunque la contraddizione fatale in cui è invischiato il movimento socialista in tutte le sue forme: l’attesa di un crollo del capitalismo su cui innestare la rivoluzione proletaria tutt’al più riempita da un pallido gradualismo: una polemica durissima contro massimalisti e riformisti nel nome, in buona parte, di Carlo Marx.

L’Italia – egli scrive – è un paese capitalisticamente arretrato, povero, disarticolato nelle sue parti, politicamente ineducato, affetto da provincialismo congenito… Fragile nelle sue basi perché un movimento socialista degno di questo nome (…) è possibile solo dove la vita economica così industriale che agricola è grandemente sviluppata, là dove si sono superate le colonne d’Ercole del salario di sussistenza, là dove la rivoluzione borghese ha posto su solide basi nello Stato “nazionale” il regime rappresentativo e ha definitivamente affermate le libertà politiche. Ora in Italia difettavano in gran parte tali condizioni[27].

Anche queste argomentazioni fanno pensare a Marx. E tuttavia – sostiene Nicola Tranfaglia – non siamo di fronte ad una conversione di Carlo Rosselli al marxismo teorico. «In maniera più organica e articolata che nel 1923-’24 il giovane elabora sulla sconfitta socialista e sull’avvento del fascismo una diagnosi che risente piuttosto delle tesi salveminiane e di quelle di Fortunato (mediate queste ultime attraverso Gobetti)»[28].

La risposta a Rosselli venne, su Critica sociale con un articolo di Claudio Treves sotto lo pseudonimo di Rabano Mauro. La sconfitta, secondo Treves, non era attribuibile alla debolezza e agli errori del Movimento operaio, ma alla borghesia che non ha saputo difendere le sue libertà, come invece era accaduto alla fine del secolo quando i tentativi reazionari di Pelloux furono contrastati, insieme, da socialisti, repubblicani e radicali.

Tutto un fronte è caduto – il fronte della civiltà liberale democratica. Ma accagionarne la classe lavoratrice in tale proporzione e furore di autocritica, è passione di penitente, ebbro di dissolvimento[29].

Rosselli si attendeva una risposta così “piccata”, consapevole di aver toccato un tasto sensibile. Replicherà che il fascismo presentava dei caratteri originali e che le istituzioni democratiche, tanto agognate nell’Ottocento, mal si accordavano «con la seconda e presente fase, protezionistica, trustaiola, siderurgica, dell’ultimo più evoluto stadio della trasformazione industriale»[30].

D’altronde – continua Rosselli – «democrazia reale» non è quella che si esaurisce in stantìe pratiche parlamentari, quanto quella che si esercita sulla base di pari condizioni di partenza e di condizioni economiche che rispettino la dignità dell’individuo.

Una vera democrazia non esiste là dove esistono profonde disparità economiche. Il criterio della maggioranza, della sovranità popolare, che in sé è sacrosanto, acquista un valore puramente morale quando una minoranza detiene nelle sue mani gli strumenti effettivi del potere, cioè i mezzi di produzione e di scambio[31].

Tuttavia la democrazia socialista non poteva che essere una repubblica. La debolezza dimostrata dalle forze di opposizione era relativa anche alla convinzione che il duce aveva preso il potere contro la volontà del monarca. Le divisioni, soprattutto a sinistra, avevano fatto il resto.

Ma forse le parole non bastavano più: occorreva far fronte a un governo che si adoperava con ferocia contro ogni minima manifestazione di dissenso. Il sospetto non attendeva più le prove circostanziate e la magistratura diventava sempre più un docile strumento per perseguire gli oppositori. Bisognava intanto mettere in salvo quello che restava della tradizione socialista: il grande vecchio Turati, fortemente segnato anche dalla morte della compagna Anna Kuliscioff avvenuta l’anno precedente. A questo scopo si prodigò Carlo Rosselli con successo pagando pesantemente quelle scelte con un anno di carcere e  due di confino.

 

Socialismo liberale.

Sin qui ho cercato di ricostruire col massimo di obiettività gli anni del dopoguerra e gli studi economici collaterali alla attività di docente universitario, astenendomi da giudizi o riflessioni di carattere personale. L’analisi che mi accingo a compiere dell’opera maggiore di Carlo Rosselli, quella in cui il suo pensiero si distende ad una visione d’insieme anche se non dogmatica, mi spinge a compiere qualche ‘incursione’ cercando comunque di non distorcere o ‘piegare’ il testo rosselliano a letture che muovano dall’attualità.

A mio parere, per capire a fondo il senso e il valore della riflessione di Carlo Rosselli, non si può prescindere dalla ricostruzione storica di quegli anni mettendo in luce, in particolare, i rapporti personali e politici che intercorrevano tra i vari leader della sinistra.

Il primo palese arretramento delle forze popolari e di sinistra si ebbe con l’approvazione della ‘Legge Acerbo’ nell’aprile del ’23. Il Partito Popolare che si era astenuto in parlamento ne uscirà distrutto con una componente che simpatizzava, insieme al Vaticano col regime e don Sturzo che lasciò il suo incarico. A sinistra si aprì una discussione se partecipare o meno a elezioni che, si sa già, saranno caratterizzate da violenze intimidazioni, oltre alla previsione luciferina di dare i due terzi dei seggi al partito che riuscisse a prendere il 25% dei voti. La vera sconfitta sarà infatti l’andare a quelle elezioni profondamente divisi, non solo tra sinistra, popolari e democratici, ma anche all’interno dei partiti che in qualche modo facevano riferimento al movimento operaio.

In effetti, superate ben presto le ipotesi astensioniste, ci fu qualche tentativo di costruire un’alleanza e, guarda caso, venne dal P.C.I.

Il C.C. – si legge in una mozione – considera la lotta elettorale come un momento dell’azione che il partito comunista conduce per la formazione di un fronte unico di difesa degli interessi economici e politici della classe lavoratrice di cui il fascismo è la negazione; respinge ogni criterio di blocco che fosse rivolto unicamente ad ottenere uno spostamento nei risultati numerici delle elezioni e che partisse elusivamente da preoccupazioni elettorali; e perciò ritiene che ogni accordo elettorale debba avere un carattere programmatico che possa costituire la base di un fronte unico permanente di azione[32].

Il programma è la rivoluzione proletaria. Lo dice, senza tante perifrasi, Togliatti in persona in una lettera al Komintern in cui si cerca di fare chiarezza sulla strategia elettorale del PCI.

Il fascismo – scrive Togliatti – ha aperto per il proletariato un periodo di rivoluzione permanente e il partito proletario che dimenticherà questo punto e che contribuirà a nutrire tra gli operai l’illusione di una possibilità di mutare la situazione presente tenendosi sul terreno di una opposizione liberale e costituzionale darà, in ultima analisi, punti d’appoggio ai nemici della classe operaia e contadina italiana[33].

I primi a non credere all’accordo sono proprio i comunisti. La proposta è strumentale: lo scopo è quello di spaccare il PSI «incorporando» i ‘terzini’, cioè la minoranza interna al PSI che si era espressa per l’ingresso nella Terza Internazionale.  «Il rifiuto – è sempre Togliatti che parla – dovrà darci l’occasione per sviluppare una campagna polemica contro il Partito riformista»[34].

Per non dire di Bordiga che è contro anche l’ingresso dei “terzini” nel partito, arrivando a bocciare persino le direttive dell’Internazionale Comunista. D’altronde è tutto il partito impelagato in questioni interne, più di quanto richiederebbe la situazione. Non irrilevante il fatto che la componente di Bordiga è tutt’altro che minoritaria.

E Gramsci? A condizionare le scelte dei singoli è ancora il fascino esercitato dalle ideologie e gli scenari internazionali. L’Internazionale tiene a Mosca il suo V congresso il 17 giugno del 1924, assente Lenin già gravemente malato. Il capitalismo – nelle parole di Zinov’ev – è dato in forte crisi e le risposte sembrano essere due: quella truce e violenta del fascismo e quella più subdola della socialdemocrazia. L’unica prospettiva è quella del «governo operaio e contadino» che poi è un altro modo di dire dittatura proletaria. Gramsci fa sue queste analisi, sottolineando su scala nazionale l’apporto che i contadini devono dare all’alleanza di classe.

A fine giugno, dopo il rapimento di Matteotti, il tema all’ordine del giorno è sempre lo spostamento di forze a favore dei comunisti.

La capacità di azione delle masse operaie in avvenire – dice Mauro Scoccimarro in un rapporto al Komintern del 22 giugno – dipenderà in gran parte dal lavoro di preparazione politica e militare che saprà compiere il nostro partito, per il quale si pone oggi più che mai in termini concreti il problema della insurrezione e della lotta armata contro il fascismo[35].

Il Comitato centrale del PCI si riunisce in agosto e la relazione è svolta da Antonio Gramsci che da questa assise risulterà eletto segretario. Nel clima di indignazione che è seguito al ritrovamento del cadavere  di Matteotti, Gramsci vede un indebolimento del fascismo, in cui una serie di «forze periferiche» (esercito, polizia, magistratura, vaticano e monarchia), fino a quel momento sodali col fascismo, potrebbero lentamente prenderne le distanze. Mi sembra questo un primo cambio di registro rispetto alle letture precedenti, cambio a cui Gramsci aggiunge il frutto migliore della sua esperienza politica, ovvero l’ordinovismo.

Lo stato operaio – afferma Gramsci nella sua relazione – può essere costituito solo se la rivoluzione disporrà di molti elementi qualificati politicamente; la lotta per la rivoluzione può essere combattuta vittoriosamente solo se le grandi masse sono, in tutte le loro formazioni locali, inquadrate e guidate da compagni onesti e capaci. (…) Occorre pertanto suscitare un vasto movimento nelle fabbriche che possa svilupparsi sino a dar luogo a una organizzazione di comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali nella crisi sociale che si profila diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore… La misura in cui il partito nel suo complesso, e cioè tutta la massa degli iscritti, riuscirà a svolgere il suo compito essenziale di conquista della maggioranza dei lavoratori e di trasformazione molecolare delle basi dello stato democratico, sarà la misura dei nostri progressi nel cammino della rivoluzione, consentirà il passaggio ad una fase successiva di sviluppo…[36].

Voi direte: ma cosa c’entra tutto questo con Rosselli? C’entra perché con questa prassi Rosselli si confrontò; questi uomini dovevano essere i suoi compagni di viaggio, ma la navigazione era pressoché impossibile. Le cose non cambiavano se, al posto dei comunisti, l’interlocutore era il Partito socialista. Già nel luglio del ’23 Rosselli in un articolo pubblicato da la Critica sociale era stato molto netto:

Il vero sta nel fatto incontrovertibile che, almeno sino allo scorso ottobre (data di nascita del Partito Unitario) in Italia non è mai esistito, dal 1900 in poi, un Partito Socialista che potesse dirsi veramente liberale e democratico. La Direzione del partito, salvo brevi parentesi riformiste, fu sempre in mano ai rivoluzionari: i quali, abbarbicati alla lettera del marxismo (fatta eccezione per la deliziosa parentesi volontaristica mussoliniana) trattenuti, per eccesso ideologico e per una visione eccessivamente storicistica del divenire sociale, dal rifiutare i principi della violenza levatrice, del colpo di mano barricadiero, della dittatura della minoranza, del famoso pulcino che rompe il guscio non meno famoso, ecc, finirono per legittimare , almeno in parte, la sfiducia degli avversari nella possibilità di esistenza di un partito e di una pratica socialista con metodo liberale, ma la pare a me stia a base  del Partito Unitario[37].

Alla luce di queste riserve e di queste incompatibilità, cosa resta del socialismo rosselliano, quantomeno in questa fase? Resta il grande cuore rivolto agli ultimi. Cosa ce ne facciamo della libertà di stampa o della libertà negli studi se poi ho la possibilità di usufruirne dovendo fare quotidianamente i conti con la sopravvivenza o con una miseria che umilia costantemente il mio spirito? «Il socialismo – scriverà – è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente» [Socialismo liberale]

Le prime pagine di Socialismo Liberale sono una feroce critica al marxismo teorico considerato come un’inemendabile filosofia deterministica. Il tema è quello del rapporto tra teoria e prassi in Marx che – secondo le vedute di Rosselli – sono in netta contraddizione.  La teoria è il materialismo storico, con la sua esclusione di ogni elemento volontaristico dalla storia dell’uomo e con la declinazione di uno sviluppo storico in cui il fattore economico è determinante. «Il marxismo è determinismo o non è», dice Rosselli. Ma questa filosofia entra in contraddizione con se stessa nel momento in cui celebra la lotta di classe come spinta all’emancipazione e all’autodeterminazione. Se la volontà ha un ruolo nella vita dell’uomo, perché ostracizzarla quando si pretende di costruire un quadro teorico che rispetti i canoni della scienza?

Insomma per qualcuno (Abbagnano) il merito di Marx starebbe nel realizzare quella osmosi tra teoria e prassi che non era riuscita a Hegel quando affermava che il reale è razionale e viceversa. Per Rosselli questa integrazione non c’è. Come ne usciamo, sempre nel pieno rispetto della figura di Carlo Rosselli non solo come uomo d’azione ma come teorico? Forse è il caso di fare qualche analisi ulteriore.

A mio parere l’errore che compiva Rosselli, giustificato dagli elementi di conoscenza di cui disponeva e dalla forte presa che la dottrina marxista ancora esercitava sugli strati popolari e non, derivava da una forte δυσκρασία (‘cattiva mescolanza’, secondo l’etimologia) tra due piani diversi di discussione: quello ontico (o ontologico che dir si voglia), che ha la pretesa di riferirsi alle componenti essenziali ed esistenziali dell’essere uomo e che ci obbliga a sottolineare la volontà come presupposto di ogni scelta e quello dell’analisi storiografica che si nutre di elementi ora economici, ora antropologici, ora psicologici. Rosselli confonde i due piani giungendo ad una netta condanna del marxismo.

Nel sistema marxista abbiamo a che fare con una umanità sui generis, composta di uomini per definizione non liberi, operanti sotto la spinta del bisogno, costretti a ricorrere a metodi produttivi indipendenti dal proprio volere e ad accedere a rapporti sociali imperativi. Essi hanno un solo titolo per essere considerati fattori efficienti del processo storico: l’essere parte integrante del meccanismo produttivo. Gli altri aspetti sono derivati e secondari, funzione dello sviluppo delle forze produttive[38].

Nello stesso capitolo Rosselli, indicando i ‘sacri testi’ marxiani cita il Manifesto del Partito Comunista, La Prefazione alla critica dell’economia politica del ’59 e Il Capitale. Non cita i Manoscritti del ’44 per la semplice ragione che – quando scrive e cioè nell’autunno-inverno del 1928/’29 dal confino di Lipari – l’opera di Marx non era ancora stata tradotta[39].

E’ risaputo che i Manoscritti – per Marx – rappresentano il primo contatto con l’economia politica. Non a caso sono stati preparati da un intenso studio in cui Marx si confrontò a lungo con gli autori classici dell’economia politica: Say, Smith, Ricardo ecc. Ma, come ha messo ben in evidenza Louis Althusser[40], l’incontro con gli economisti classici, rappresenta al tempo stesso una critica dell’economia politica, perché ad essa non viene riconosciuta alcuna pretesa di apoditticità a partire dalle contraddizioni in cui si avvolge lo stesso sistema economico da questi teorizzato. Stravagante mi sembra l’idea che questa pretesa scientificità diventasse attributo esclusivo della teoria marxiana. Chi sostiene il contrario muove da un appiattimento positivistico che ritengo lontanissimo dalla filosofia marxista.

Intendo però spostare il discorso su un altro aspetto non secondario. Uno dei temi centrali nei Manoscritti è quello del lavoro alienato. A questo proposito è, purtroppo, necessaria una citazione più corposa.

L’uomo – afferma Marx –  è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoreticamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche (…) in quanto egli si comporta con sé stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con sé stesso come con un ente universale e però libero. (…) L’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c’è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L’attività vitale consapevole distingue l’uomo direttamente dall’attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico. Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita, solo perché è precisamente un ente generico. Soltanto per questo la sua attività è libera attività. Il lavoro estraniato sconvolge la situazione in ciò: che l’uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza[41].

Se gli uomini fossero per definizione non liberi – come dice Rosselli riferendosi all’antropologia marxiana – non dovrebbero neanche avere consapevolezza di ciò. Se cerchiamo l’uomo prigioniero della  materia di cui è fatto e di una natura che non deborda dalla necessità, dobbiamo cercarlo in Feuerbach (L’uomo è ciò che mangia) non certo in Marx.

Anche l’animale produce – chiarisce ancora Marx – esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche etc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé  o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L’animale produce solo se stesso, men e iltre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo confronta libero il suo prodotto. L’animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente, quindi l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza[42].

Questo il Marx con cui dobbiamo misurarci, non altri. Non credo francamente che ci siano margini per dubbi di ogni genere. Ma questo è ancora il piano della riflessione filosofica o antropologica, Che poi di questo “lavoro umano” si appropri qualcuno, o un complesso di fattori economici (quelli che Marx s’incarica d’indagare) è un discorso che attiene alle scelte dell’uomo, all’’uomo integrato in concreti rapporti sociali, quindi all’economia, alla sociologia, alla psicologia (chiedete ai marginalisti!). E’ un piano diverso di discussione dove, certo, far prevalere l’elemento economico su quello spirituale rappresenta una forte distorsione. Ma siamo sicuri che questa lettura economicistica e deterministica sia tributabile a Marx e non ai suoi cattivi interpreti?

Quando leggo che

tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello stato non possano essere compresi bé per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel … [43].

non ci trovo nulla di sconvolgente. E’ chiaro che a determinati rapporti economici di produzione corrispondano determinate sovrastrutture, altrimenti non si capirebbe perché la democrazia si è sviluppata solo ai giorni nostri, anche se qualche esperienza precaria e originalissima (ma anche contraddittoria) si è avuta nell’antica Grecia. L’esempio più recente ci viene offerto da ciò che è avvenuto nella ex Unione Sovietica, laddove il salto nel comunismo è avvenuto senza che la borghesia avesse effettuato sino in fondo la sua rivoluzione. I limiti di quell’esperienza storica li scontiamo ancora oggi dopo il crollo del comunismo.

Come non trovo sconvolgente l’affermazione che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza»[44].

E’ chiaro, anche in questo caso, che si parla di approssimazioni generiche, ma mi sembra arduo dimostrare che una persona vissuta nei boschi o in una condizione sociale deprivata possa nutrire attese di qualunque tipo nei confronti del vivere civile. Senza quel livello di approssimazione nessuna scienza sociale potrebbe vantare un minimo di rigore scientifico.

Altrettanto ovvia la constatazione che «a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono solo l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse»[45]. Qui l’esempio illuminante è quello della rivoluzione francese, allorquando istituzioni e comportamenti dell’ ‘Ancien regime’ entrarono in conflitto con le aspirazioni e i bisogni di una classe emergente.

Potremmo continuare, ma non si può prescindere dal fatto che, quando Marx affronta esplicitamente la questione del ‘metodo dell’economia politica”, come farà nella sua Introduzione alla critica dell’economia politica, sarà con riferimento al metodo hegeliano:

Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni ed unità, quindi del molteplice. Per questo esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l’effettivo punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. (…) Il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso. La più semplice categoria economica come il valore di scambio, presuppone la popolazione, una popolazione che produce entro rapporti determinati, ed anche un certo genere di famiglia, o di comunità o di Stato ecc. Esso non può esistere altro che come relazione unilaterale, astratta, di un insieme vivente e concreto già dato[46].

Altrimenti ricadremmo nel misticismo logico di Hegel, per cui, dovendo definire la Costituzione, si dovrebbe argomentare nel seguente modo:

Il sentimento [politico] prende il suo contenuto particolarmente determinato  dai differenti lati dell’organismo dello Stato. Questo organismo è lo sviluppo dell’idea nelle sue distinzioni e nella loro realtà oggettiva. Questi lati distinti sono così i diversi poteri e i compiti e l’attività loro, per cui l’universale si produce continuamente, e invero, essendo essi determinati dalla natura del concetto, esso si produce in modo necessario, e poiché esso è particolarmente presupposto alla sua produzione, si conserva: e questo organismo è la costituzione politica[47].

Ed ecco la replica di Marx:

Che i diversi lati di un organismo stiano in una connessione necessaria, scaturente dalla natura dell’organismo, questo è pura tautologia. (…) Col dire che “questo organismo (dello Stato, la costituzione politica) è lo sviluppo dell’idea nelle sue distinzioni” etc; con ciò non so ancora niente del tutto dell’idea specifica della costituzione politica; la medesima frase può essere pronunciata con la medesima verità a proposito dell’organismo animale come di quello politico [48].

Sarò un troglodita, ma sottoscrivo integralmente, senza indugiare solo un attimo su un concetto di economia da cui derivi meccanicamente la coscienza sociale e lontanissimo dall’amenità per cui il pensiero si conformi passivamente all’essere. Si tratta di rudimenti di buon senso logico,  non dell’ultima manifestazione di un gretto materialismo. Altrimenti parleremmo di naturalismo e non di materialismo storico.

Intendiamoci, qualora non fosse ancora chiaro. In questa esegesi dell’antimarxismo rosselliano non c’è alcun intento di tornare ad un’ortodossia che Marx sarebbe il primo a rigettare, né il proposito di screditare una figura luminosa e coraggiosa quale fu il fondatore di Giustizia e Libertà. Ben altri sono i gravami e le responsabilità di chi ha tradito il popolo russo consegnandolo alle nebbie della burocrazia o di chi, accecato dall’ideologia, ha apostrofato come ‘socialfascisti’ uomini e donne che più di altri avevano colto le vere radici del fenomeno fascismo. Se proprio dobbiamo iscriverci ad una famiglia come studiosi di Rosselli, tra ‘rumorosi detrattori’, ‘clamorosi estimatori’ e ‘pazienti sezionatori’, come dice Gaetano Pecora nel suo libro[49], ci iscriviamo a quest’ultima.

Manoscritti o meno, ben presto, dall’interno del marxismo, si alzeranno delle voci critiche come riconosce lo stesso Rosselli: innumerevoli, appassionate, incomprese, generose: da Bernstein a Sorel, da Jean Jaurès a Rosa Luxemburg (non citata da Rosselli), agli italiani Mondolfo e Labriola.  Con loro, il movimento operaio si apriva a nuovi orizzonti e opportunità, alla fiducia nella lotta quotidiana per migliorare la loro condizione di vita, ai miglioramenti salariali, alla riduzione dell’orario di lavoro ad una diversa organizzazione del ciclo produttivo che salvaguardasse la dignità degli operai.

Dal partito politico non attendono più il comando per l’insurrezione, ma pretendono invece la organica azione in Parlamento e nei corpi pubblici per la difesa di un’atmosfera di piena libertà e il conseguimento di una legislazione protettrice del lavoro. La progressiva consapevolezza dei limiti dell’azione sindacale, il contatto con la realtà economica, l’abito del contraddittorio e della responsabilità, la stessa imponenza dei risultati via via conseguiti (…) tutto coopera così a spegnare nel movimento operaio le facili illusioni sulla possibilità e soprattutto sulla convenienza di un rivolgimento improvviso e violento[50].

Al revisionismo di questi pensatori Rosselli riconosce lo sforzo di superare il determinismo, di concepire il rapporto tra struttura e sovrastruttura in chiave di interdipendenza, di restituire agli uomini il giusto posto che gli spetta nei processi storici, ma, complessivamente il giudizio è negativo sia per la componente riformista che faceva capo a Bissolati, Bonomi e, in parte, Turati, sia per la componente del sindacalismo rivoluzionario che aveva i suoi teorici in Labriola e Mondolfo:

Una piccola torre di Babele che ha permesso a tesi e a correnti contraddittorie di ornarsi della paternità illustre di Marx, alimentando una polemica ognora più sterile e inconcludente. (…) I revisionisti, travolti, specie in Germania,  Mecca del marxismo, dalla condanna quasi unanime dei congressi e sinceramente desiderosi di mantenere l’unità del movimento operaio  (…),  ripiegarono su posizioni teoriche e si arresero disciplinatamente al verdetto della maggioranza[51].

E’ condivisibile questa critica feroce al revisionismo che – tra l’altro – è stato il terreno su cui è cresciuta la stessa visione del socialismo liberale, trovando in personaggi come Treves e Turati figure di riferimento per Rosselli anche sul piano umano? La risposta non può che essere ispirata a  problematicità e prudenza.

Una figura del revisionismo italiano cui Rosselli sembra prestare maggiore attenzione è quella di Rodolfo Mondolfo. Eppure anche nei suoi confronti egli si colloca con una severità eccessiva.

Se è vero, come appare verosimile a molti studiosi a cominciare da Bobbio, che il revisionismo inchiodava il marxismo alle sua contraddizioni irrisolvibili (ad es. la contraddizione tra il materialismo affermato in sede teorica e il volontarismo praticato nella realtà), per Mondolfo piuttosto, queste incongruenze sarebbero la prova della complessità della filosofia marxista disposta a valorizzare, muovendo dalla condizione sociale data, ora gli aspetti oggettivi ora quelli soggettivi.

Mentre il riformismo si affida all’evoluzione meccanica delle condizioni oggettive e dimentica il momento attivistico, il rivoluzionarismo astratto (alla Sorel) stacca la coscienza dalle condizioni reali tanto da renderla improduttiva e, ciò facendo, finisce per ricadere nello stesso difetto che rimprovera agli avversari. (…) Riformismo e  rivoluzionarismo hanno in comune una concezione deterministica, non dialettica, della storia: per entrambi contano in ultima istanza, più le cose che la coscienza delle cose, più l’ambiente esteriore che la prassi umana[52].

Mondolfo si colloca in una posizione mediana, quella posizione che lo porterà a respingere nettamente l’esperimento di Lenin, troppo spinto secondo lui in direzione del volontarismo rivoluzionario. Mi sembra la stessa veduta di Rosselli che, non aderendo al pensiero socialista troppo incline all’attendismo e pago delle riforme, non si riconosceva neanche nel rivoluzionarismo astratto e inconcludente dei comunisti. Eppure il punto di vista di Rosselli è ancora problematico. Dopo aver detto che, scarnificando la teoria marxista si approda al liberalismo nel senso di una banale «lezione di realismo storico», ritiene che quando ai tempi di Marx questa lezione fu impartita aveva una sua efficacia, ma oggi tende a «farsi nociva».

Il determinismo marxista, e anche la interpretazione corretta che di esso danno i revisionisti [leggi Mondolfo, N.d.A], induce alla accettazione o per lo meno ad un eccessivo rispetto a priori della realtà esistente. Esso umilia l’umanità ricordandole di continuo la sua pochezza di fronte alle formidabili forze ambientali, naturali e sociali; e può facilmente condurre a forme di rassegnazione sul tipo di quella cattolica (…) il materialismo storico è filosofia che meglio si addice alla classe capitalistica, che alla classe proletaria. Il capitalista, e in particolare l’imprenditore, essendo alla testa del processo produttivo, (…) riesce concretamente a inserire la sua volontà nella storia.[53]

Egli dunque rigetta – in questa fase – il materialismo storico in tutte le sue manifestazioni e recupera piuttosto il volontarismo (o il fattore passionale) che con il liberalismo, ovviamente va a nozze.

Giustissimo rimproverare ai socialisti un atteggiamento «buddistico o stoico» nei confronti del fascismo, sacrosanto prendere le distanze dalle formule che sottolineavano tra i comunisti «l’immaturità di sviluppo capitalistico» da cui far dipendere ogni iniziativa politica, tuttavia il pensiero di Mondolfo forse era più fertile e originale di quanto potesse percepire Rosselli.

Mondolfo, interrogandosi su quali potessero le motivazioni del fraintendimento materialista a monte delle «frasi che accentuavano l’importanza dell’economia nella storia», riconosce lucidamente due cause:

L’una derivante dalla convinzione che la dottrina abbia suo fondamento e presupposto nel materialismo; l’altra discendente dal modo di intendere la dialettica reale siccome autocritica delle cose stesse, secondo un idealismo inconseguente, che avrebbe fatta bensì la legge immanente alla materia anzi che all’idea assoluta, ma non le avrebbe nulla tolto della sua fatalità trascendente ogni genere umano. Idealismo e materialismo qui venivano a darsi la mano, introducendo l’uno il principio della legge eterna e inflessibile, l’altro il principio che, essendo, essendo lo spirito un semplice prodotto della materia, l’interno fosse sempre e in tutto determinato dall’esterno e mai viceversa.[54]

Mondolfo – e non ritengo di essere molto lontano dal vero – aveva intravisto le problematiche che saranno sviluppate negli anni sessanta del secolo scorso da Galvano della Volpe, da Lucio Colletti e da Louis Althusser, tematiche che riconoscevano il limite della dottrina marxista in una dialettica adagiata sul metodo hegeliano e in un rapporto Marx-Hegel che si esauriva nel piantare sui piedi una dialettica concepita solo sulla testa. Una buona dose di ambiguità sussiste nell’Engeks dell’Anti-Dhuring che parla di materialismo dialettico, tuttavia è lo stesso Mondolfo che sottolinea l’appello che Engels rivolge dalla stesse pagine dell’Anti-Dhuring al «principio illuministico dell’imperfezione perenne», precisando che

in realtà la certezza assoluta va scomparendo anche dalle scienze esatte, è ben lontana dalle scienze biologiche e più che mai dalle scienze storiche, ove pure più di frequente c’è chi afferma pretese verità eterne, definitive, inappellabili. Nelle scienze storiche la conoscenza è e resterà sempre incompleta, lacunosa ed essenzialmente relativa, sempre ristretta ai rapporti di forme sociali e politiche determinate, che esistono solo per tempi e popoli dati: chi va a caccia di verità autentiche e immutabili è destinato a tornare a casa col carniere vuoto[55].

Come si può vedere, tutto era stato scritto e detto.

Lo scritto di Rosselli torna a cogliere alcuni aspetti importanti della crisi del marxismo quando sposta la sua attenzione più che sugli aspetti teorici su quelli pratici: sulla riorganizzazione capitalistica, sul sempre più frequente intervento dello stato nell’economia e sul fatto che l’unica rivoluzione comunista si era verificata in un paese che non presentava le condizioni prospettate da Marx. In tutti questi eventi Rosselli vedeva una smentita clamorosa delle previsioni marxiste. Tuttavia sarà la stessa pratica a fare strame delle attese più sfavillanti del capitalismo con l’ascesa, di li a poco, del nazismo in Germania e i venti di guerra denunciati dallo stesso Rosselli. Egli vede il destino del marxismo legato ad un quesito: trasformazione delle cose o trasformazione delle coscienze? Dove le cose, nella dottrina marxista, stanno per socializzazione e le coscienze devono attendere la presa del potere. Ma è così? A ragion veduta le cose sono andate diversamente, anche per tanti che non hanno rinunciato così sbrigativamente alla teoria. Le cose non hanno coinciso come in nell’esperimento fallimentare dell’Unione Sovietica, con la socializzazione dei mezzi di produzione come panacea. Di passaggi intermedi o qualitativamente diverse se ne sono presentati molteplici e attengono a delicatissimi problemi di organizzazione della produzione e di politiche economiche non predatorie nei confronti dell’uomo e dell’ambiente. Come anche – a noi che abbiamo vissuto il sessantotto operaio – la coscienza operaia non è discesa dalle politiche da Minculpop o da imput forniti da rivoluzionari di professione, ma dal vivo svolgersi delle vertenze sindacali. E d’altronde Gramsci (e lo stesso Rosselli) hanno sempre inteso le tematiche consiliari come esperimenti di partecipazione democratica. C’è indubbiamente qualche semplificazione in quanto affermiamo; e tuttavia non si può immaginare servizio peggiore alla memoria di Rosselli che sedersi e abbandonarsi a lodi sperticate nei confronti delle sue riflessioni.

Il fatto è che siamo di fronte ad una contraddizione. Quando dalla pars destruens del suo Socialismo liberale si passa alla pars construens, Rosselli dirà che il socialismo è l’erede logico e naturale del liberalismo, perché una libertà che non si nutre di giustizia sociale e che lascia l’individuo solo a fare i conti con la miseria e l’emarginazione non è libertà[56]. Ma questo risultato non lo si ottiene spostando semplicemente l’accento sulla giustizia piuttosto che sulla libertà o fissando l’ago della bussola al nord dei diritti e dell’uguaglianza; non certo facendo appello alla morale e alla coscienza individuale o proponendo coraggiose politiche distributive. Lo si fa mettendo in discussione – e lo dico ancora una volta col senno di poi, ovviamente – il modello di sviluppo, introducendo audaci correttivi nelle scelte del come, dove e cosa produrre, frenando gli istinti autodistruttivi di un sistema orientato esclusivamente alla ricchezza materiale e al profitto.

Tutte tematiche familiari a Rosselli già negli scritti economici, ma ancor più negli scritti e nelle esperienze che seguiranno.

Nell’accingersi a chiudere il suo Socialismo Liberale Rosselli sottolinea due aspetti che in quel contesto non erano ancora chiarissimi: che la borghesia non rappresentasse un blocco monolitico e che, accanto ad una borghesia conservatrice e retrograda, sussistevano strati di borghesia aperti all’innovazione e al progresso; che prima ancora del fine era importante il metodo, il metodo democratico non buono solo per prendere il potere per poi disfarsene, ma come «patto di civiltà che gli uomini di tutte le fedi stringono fra loro per salvare nella lotta gli attributi della loro umanità»[57].

Via via che le condizioni economiche migliorano – e si sono grandemente migliorate – via via che la classe operaia procede nella sua affermazione politica, via via che lo Stato si apre alle esigenze nuove, e la stessa borghesia nelle sue frazioni più progressiste, non contrasta più con lì ostinazione tradizionale il processo di emancipazione proletaria, i problemi di cultura e di moralità debbono salire al primo piano, pena lo smarrirsi e il corrompersi del movimento. (…) È consolante perciò rilevare come in questi ultimi anni queste esigenze di ordine spirituale siano venute, sia pure timidamente, affacciandosi nel seno stesso della classe operaia, per merito di quello stesso moto sindacale che sembrava sensibile alle sole questioni di orario e di salario. La richiesta sempre più insistente per il controllo operaio, per la compartecipazione alla direzione della produzione, per la costituzionalizzazione del regime di fabbrica, le battaglie su questioni di principio e di dignità, rivelano il sorgere di una dignità nuova nell’operaio medio, che non si accontenta più dei soli miglioramenti materiali, ma intende affermare la sua personalità  autonoma dentro e fuori la fabbrica. (…)Il nostro compito deve consistere nello svolgere queste prime oscure intuizioni dell’anima proletaria. (…) Insistere perché al movimento socialista sia sempre più di guida un ideale di autonomia e libertà. Spiegare che, affinché una rivoluzione sia fruttuosa, non basta la conquista dei centri di comando. Procedere non dall’alto al basso, ma inversamente. Concepire il socialismo non come risultato di imposizione di una minoranza illuminata, ma come risultato di persuasione attraverso una lunga catena di esperienze positive. Non avere troppa fede nelle leggi. Si possono fare tutte le leggi, ma se esse non sanzionano uno stato di fatto in via di affermazione e non riposano già sul costume, si risolvono troppo spesso in conati infruttuosi[58].

Sembra di ascoltare la Luxemburg quando prende di mira la falsa democrazia dei soviet nel corso della rivoluzione russa a cui si rimanda. Ecco dunque lo snodo che consente di collegare da una parte la Luxemburg e dall’altra Gramsci, lungo una linea rossa che, accanto a indubbie differenze, contempla una intensa e inedita comunione d’intenti, un afflato e un sentire comune ai tre pensatori. In queste pagine e in quelle immediatamente precedenti il respiro di Rosselli torna a farsi ampio e la sua visione più lucida.

I poveri, gli oppressi, coloro che non possono adattarsi allo stato attuale, perché in questo stato soffrono e si sentono come limitati, mutilati, e hanno coscienza della loro mutilazione; ecco il formidabile campo di reclutamento del liberalismo. (…) Quel che si vuole qui sostenere è che il moto socialista, per i suoi effettivi moventi e i risultati che sino ad ora ha avuti nello sviluppo sociale, esercita ordinariamente oggi, nella concreta società in cui viviamo, una indubbia funzione liberale. Il proletariato può dichiarare nei suoi programmi ciò che vuole; ma, sino a tanto che esso continuerà a trovarsi in una condizione di inferiorità morale e materiale e sentirà prepotente il bisogno di liberarsene, e, nel liberarsene, farà uso di mezzi, di strumenti adeguati, cioè posti sulla via del progresso, compierà – lo voglia o non lo voglia, lo sappia o non lo sappia – opera sostanzialmente liberale. (…) Marx ha sempre ammonito i socialisti che la socialista non nascerà da una riforma interna della società capitalistica, del suo sistema di distribuzione, ma dalla evoluzione delle forze di produzione. Sviluppare queste forze di produzione, svilupparle il più rapidamente e integralmente, ecco il mezzo migliore per avvicinare la società nuova. Marx però riteneva che questo processo di sviluppo fosse rapidissimo e determinasse in breve volgere di tempo una crisi catastrofica nel sistema dei rapporti capitalistici; mentre la realtà ha dimostrato come questo sviluppo non conducesse necessariamente a conclusioni socialiste. Di qui la crisi della dottrina socialista, la sensazione che la macchina economica non segna una direzione obbligata, la revisione dei programmi, il subentrare di una visione più complessa e realista in tutti i movimenti socialisti. Come il viandante che in distanza scorge sull’orizzonte la montagna con contorni netti e regolari e poi, avvicinatosi, la scopre sinuosa e tormentata, tutta pieghe e ondulazioni, così il socialista, seguendo da presso la vita economica e sociale, si è reso conto dell’eccessivo semplicismo e unilateralismo dei programmi iniziali[59].

Eppure tutto questo per Togliatti era «fascismo dissidente», Socialismo liberale era solo l’opera di un «ricco, legato oggettivamente e personalmente a sfere dirigenti capitalistiche»[60].

Da qui forse il severo giudizio di Rosselli nei confronti della dottrina marxista, degli «uomini di Marx»: una dottrina incline a semplificazioni e puerili approssimazioni. La cultura che bolla Rosselli come simil-fascista è la stessa che identifica il fascismo con la mano armata del capitalismo, come risposta dissennata e disperata della borghesia agli spazi che il movimento operaio andava occupando nella società italiana.

Non nutro particolare simpatia per quanti liquidano con sufficienza il tentativo di conciliare socialismo e liberalismo, che – tra l’altro – non è esclusiva di Rosselli, ma su due verità credo che possiamo convergere:

  1. Del liberalismo esistono le forme più svariate e fantasiose. Esso costituisce un contenitore talmente ampio da poter accogliere chiunque e questo fino ai giorni nostri. Ciò non depone certo a favore della chiarezza dei proponimenti e per il rigore delle argomentazioni. Sul liberalismo tout court è impervio costruire identità.
  2. Anche del socialismo esistono interpretazioni molto diverse, ma alla base c’è sempre un discrimine tra un socialismo “liberale” e uno “illiberale” come sostiene già De Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo del 1925[61].

Quello di Rosselli è Socialismo liberale e non liberalsocialismo come invece potremmo qualificare quello di Calogero. Rosselli si considera un socialista prima che un liberale. La sua opzione è per una prassi socialista che non mette in secondo piano le libertà individuali e non considera l’uomo esclusivamente come un accidente di condizioni economiche e sociali, prima durante e dopo la presa del potere. Sarà proprio sotto le bandiere del socialismo che condurrà le sue future battaglie dopo la scrittura del Socialismo liberale.

Gli anni dell’esilio: Giustizia e libertà.

La rocambolesca fuga dall’isola di Lipari il 27 luglio 1929 non fu senza gravi conseguenze per Carlo Rosselli e la sua famiglia. Infatti, per ritorsione, furono arrestati il fratello Nello e la moglie Marion che aspettava la secondogenita Amelia. Marion sarà liberata dopo qualche giorno anche grazie ad una mobilitazione internazionale; meno fortunata la sorte del fratello che sarà mandato in esilio ad Ustica.

Gli anni dell’esilio francese saranno anni di grande attivismo. Nell’aprile del ’27 era stata fondata la Concentrazione di azione antifascista cui avevano aderito il PSI, il PSULI, il PRI, la CGIL e la LIDU. Nell’agosto del ’29 invece Salvemini, Tarchiani, Cianca, Facchinetti, Rossetti e lo stesso Rosselli daranno vita alla formazione rivoluzionaria “Giustizia e Libertà”. Lo Schema di programma da attuare in corrispondenza con il ripristino delle libertà repubblicane prevedeva una riforma agraria, un ruolo importante dei consigli di fabbrica, la nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali come della rete idroelettrica delle industrie dei fertilizzanti e delle banche private. Un organo permanente di controllo avrebbe indirizzato l’attività economica. Sarebbero stati confiscati i beni del Partito fascista e sciolte le corporazioni. La risposta del Partito Socialista non fu univoca, «furibonda»[62] invece fu la replica del Partito Comunista contrario più che altro alle mollezze e alle ambiguità della riforma agraria. Innumerevoli gli epiteti che gli rivolse Ruggiero Greco dalle colonne dello Stato operaio, la rivista dell’allora PCd’I: “masnadieri della borghesia italiana”,”banditi”, “gente fallitissima”, “ignoranti”, “gentucola pretestuosa”, ”funzionari del capitalismo” ecc.   Il Moloch che non poteva essere scalfito era la collettivizzazione spinta, senza indennizzi e senza eccezioni. Al contrario Rosselli distingueva tra grande e piccola proprietà, tra nord e sud, cercava di penetrare anche la psicologia dei contadini convinto che a questi ultimi, mezzadri, fittavoli o piccoli proprietari, interessasse in primo luogo la proprietà della terra.

Nel settembre del 1932 però quella piccola proprietà fu descritta da Rosselli in termini ci “concessione perpetua” e qualcuno[63] vi ha visto un cedimento ai socialisti sulla base dell’appena istituita collaborazione  con la “Concentrazione di azione antifascista” e una prova dello spostamento a sinistra del Rosselli, suffragato anche dallo scritto del 6 dicembre 1935 su Giustizia e libertà in cui Rosselli così si esprimeva:

Noi non sogniamo dittature alla russa, o espropriazioni e socializzazioni totalitarie, che tolgano anche ai milioni di non sfruttatori l’uso del campo[dove quel campo “usato” dà di gomito proprio alle tesi di Nenni], l’uso del campo, della botteguccia, della piccola industria. No […] Ma espropriazioni della grande industria, della grande banca, della grande agricoltura, sì.[64].

Ce n’è abbastanza per fare emergere gravi incoerenze nei testi e nelle posizioni assunte da Rosselli. La verità è che i rapporti erano molto tesi anche con la Concentrazione Antifascista la quale, ai suoi occhi, rappresentava la «disposizione mentale degli aventiniani» quando non della «mentalità liberale prefascista»[65] e che, fin quando si rimane alle questioni teoriche o a scenari di là da venire, sarà difficile per chiunque approdare a visioni univoche.

Quello che importa è che, piuttosto, a partire dal 1933, con l’ascesa al potere di Hitler in Germania  cambia decisamente il contesto europeo e, in relazione a questo, le politiche delle forze che si sono qualificate a sinistra dello schieramento.

Questi nuovi scenari politici furono ben intravisti e anticipati da Rosselli, quando ancora altri si attardavano su ipotesi di crollo del capitalismo e di rivoluzione mondiale.

A costo di essere fraintesi e lapidati vogliamo dire quello che tutti hanno sul cuore in Europa da quando Hitler comanda in Germania: l’illusione della pace è finita. La meccanica pacifista ginevrina è schiantata. La pace torna ad essere quello che fu sempre nella storia: uno stato negativo e precario, una parentesi tra due guerre (…). A meno di un capovolgimento totale la guerra viene, la guerra verrà perché è fatale che le stesse cause abbiano a produrre gli stessi effetti, perché milioni di giovani sono allevati nel delirio a volerla, perché i fascismi, padroni di mezzo continente vi saranno trascinati come alla prova suprema e alla risorsa estrema, perché la miseria e la fame furono sempre, come Proudhon ci ha insegnato, il più possente motivo di guerra, perché la lotta tra fascismo e antifascismo si avvia al giudizio di Dio, perché la vecchia Europa – ecco il punto – che credevamo seppellita con dieci milioni di morti sui campi di battaglia, risorge.(…) Non subito. Sarà tra due anni, come si prevede in Inghilterra, tra cinque, magari tra dieci anni, quando la Germania si riterrà talmente forte da sfidare l’Europa. (…) Ma la guerra preventiva è improbabile. Le guerre preventive sono operazioni strategiche che possono alle volte risparmiare una guerra sanguinosa e terribile a più lunga scadenza, ma che non sono possibili, o difficilmente possibili in regime di democrazia. In regime di democrazia le opinioni pubbliche, se non comandano, frenano, ritardano gli impulsi volontari. L’opinione pubblica in Francia e in Inghilterra è ostile alla guerra preventiva e anche ad una pressione economica e militare. (…). Una sola politica d’intervento, volta a far risparmiare al mondo un nuovo massacro, sarebbe concepibile ed accettabile: un intervento rivoluzionario; un intervento che avesse lo scopo preciso e proclamato di appoggiare una rivoluzione antifascista in Germania, una sollevazione a Vienna e a Milano. Una Francia democratica e socialista che in un momento importante della lotta civile in Germania interviene e innalza in faccia a Hitler un governo tedesco libero e rivoluzionario, che a sua volta con una armata di operai tedeschi si ricongiunge ai fratelli ribelli in patria; una Francia che assume l’impegno solenne di fronte al mondo di abbandonare il Reno senza un centesimo di indennità non appena un governo libero e umano si sia costituito e che promette la parità nel disarmo e la revisione pacifica dei trattati al libero popolo tedesco. Sogni si dirà. Sogni ammettiamo anche noi. Le democrazie di governo in Europa non sono da tanto. Bisognerebbe che, per lo meno in Francia e in Inghilterra esistessero dei partiti di democrazia socialista veramente rivoluzionari, composti di democratici e di socialisti che avessero fede nei loro principi, nella loro missione universale, di rivoluzionari che non continuassero a baloccarsi con le formule pacifiste care ai soci della società protettrice degli animali e con gli omaggi ipocriti e cervellotici alla teoria del non-intervento[66]

Nessun velleitarismo, piuttosto un quasi presagio di quello che sarebbe accaduto da lì a qualche anno. Le responsabilità ricadono ancora sui temporeggiatori, sui falsi pacifisti, sulle grandi nazioni e i suoi governi fiduciosi in un ravvedimento spontaneo. Una prospettiva diversa sembrava aprirsi invece con la guerra di Spagna a seguito del colpo di stato militare del 18 luglio 1936 che aveva rovesciato il legittimo governo di coalizione del febbraio precedente. Anche qui a misurarsi saranno i regimi fascisti, Italia e Germania in testa e dall’altra schiere di volontari da tutti i paesi, mentre Francia e Inghilterra stavano a guardare. La guerra di Spagna divenne il terreno in cui mettere in pratica quanto sostenuto in quell’articolo e Rosselli diede anche il suo contributo personale a ulteriore prova che la sua elite non era solo parolaia e inconcludente.

Il 5 maggio del 1936, con l’occupazione di Addis Abeba (o “marcia della ferrea volontà”, come fu definita dal maresciallo Badoglio) si era anche conclusa l’occupazione dell’Etiopia che non significò la fine della guerra a causa delle numerose sacche di resistenza abissina. E anche in quel caso le grandi potenze ebbero occhi per non vedere. Le sanzioni economiche delle Nazioni Unite risultarono essere stati un lieve fastidio a fronte di eccidi e orrori perpetrati dalle milizie fasciste a seguito dell’uso di gas.

Anche le spinte imperialistiche del fascismo erano state intraviste da Rosselli nel 1933. Ma quello italiano era un «imperialismo da museo»[67]. Il capitalismo mondiale divorava i mercati mondiali senza bisogno di impiegare truppe sul terreno e la Germania era diventata una potenza mondiale dopo l’unificazione solo sfruttando la sua tecnica e la sua organizzazione.

Tornato in Francia nel dicembre del ’36 Rosselli manifestò nelle lettere un certo sconforto aggravato anche dai postumi di una ferita e dalla flebite che lo assillava. Gli ultimi scritti di Rosselli erano tutti rivolti a unificare il fronte dell’antifascismo italiano ed europeo anche se il compito risultava sempre più difficile.

Il 27 maggio del 1937 Rosselli si recava a Bagnoles-de-l’Orne in Normandia per curarsi con i bagni di fango. Qui fu raggiunto dal fratello Nello e dalla moglie Marion che però ripartì qualche giorno dopo per Parigi dove avrebbe festeggiato il compleanno del figlio. Fu proprio nel viaggio di ritorno dalla stazione dove avevano lasciato Marion che furono assaliti da una banda di vigliacchi e trucidati con armi da fuoco e coltellate.

 

 

 

 

[1] Adolofo Omodeo citato da Nicola Tranfaglia, Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna, Milano, Baldini Castaldi Dalai editore, 2010, p. 42

[2] NICOLA TRANFAGLIA, cit. p. 45

[3] CFR, NICOLA TRANFAGLIA, Carlo Rosselli: sogno di una democrazia sociale moderna. Cit. p. 202

[4] Rosselli, non contento della laurea conseguita a soli 22 anni presso Il “Cesare Alfieri”, si iscrive a giurisprudenza a Siena e qui consegue la laurea nel luglio del 1923 con una tesi dal titolo: Prime linee di una teoria economica dei sindacati operai.

[5] Ivi, p. 226

[6] CARLO ROSSELLI, La lotta  di classe nel movimento operaio, articolo pubblicato sulla rivista “Critica sociale” (XXXIII) 1-15 febbraio 1923, p.444-446.

[7] CARLO ROSSELLI, Scritti inediti di economia (1924-1927); introduzione a cura di ENNO GHIANDELLI, premessa di PAOLO BAGNOLI, prefazione di MARCO DARDI. Milano, 2020.

[8] Ivi, [Sottofascicolo 10] pp. 313-314

[9] Ivi, p. 319

[10] CARLO ROSSELLI, Scritti inediti di economia, sottofascicolo 10, cit, p.321

[11] Ivi, pp. 519-520

[12] CARLO ROSSELLI, Scritti inediti di economia, cit. p. 520

[13] Ivi, p.522

[14] Ivi, p.529

[15] Ivi, 530

[16] CARLO ROSSELLI, Il Movimento operaio, in “La rivoluzione liberale”, 25 marzo 1924

[17] ALDO GAROSCI, Vita di Carlo Rosselli, Firenze, Vallecchi, 1973, pp 23-24

[18] ALDO GAROSCI, Vita di Carlo Rosselli. Firenze, Vallecchi 1973, p. 34

[19] Ivi, p. 39

[20] CARLO ROSSELLI, Il silenzio dei popoli è la condanna dei potenti: scritti politici e autobiografici. Roma, EDUP, 2023, p.48-49.

[21] PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano: da Bordiga a Gramsci. Torino, Einaudi, 1967, pp. 425-426

[22] ERNESTO ROSSI, Il “Non mollare”, in “Il Ponte”, I, 8 agosto 1945 citato da STANISLAO G. PUGLIESE, Carlo Rosselli: socialista eretico ed esule antifascista 1899-1937, Torino, Bollati-Boringhieri, 2001, p. 60

[23] NICOLA TRANFAGLIA, cit.,  p. 235

[24] STANISLAO G. PUGLIESE, Carlo Rosselli: socialista eretico ed esule antifascista 1899-1937, Torino, Bollati Boringhieri, 2001,. p. 50

[25] Liberalismo socialista. Citato da STANISLAO G. PUGLIESE, cit. p. 51

[26] CARLO ROSSELLI, Autocritica, citato da NICOLA TRANFAGLIA, Carlo Rosselli cit. p. 246

[27] Ivi, p. 247

[28] Ivi, p. 248

[29] Ivi, p. 251

[30] Ivi, p. 252

[31] Ivi, p. 254.

[32] PAOLO SPRIANO, Storia del Partito Comunista Italiano: da Bordiga a Gramsci. Torino, Einaudi, 1967, p. 327

[33] Ivi, p. 329

[34] Ivi.

[35] Il rapporto di Scoccimarro è pubblicato da Rinascita a XIX, n16, 15 agosto 1962 e ripreso da P. Spriano, Storia del Partito Comunista, cit. p. 392

[36] PAOLO SPRIANO, Storia del Partito Comunista, cit. p. 399

[37] CARLO ROSSELLI, Liberalismo socialista, in “Critica sociale” A XXXIII, n° 13 dell’1-15 luglio 1923, p. 203

[38] CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale; introduzione e saggi critici di Norberto Bobbio. Nuova edizione, Torino, Einaudi 1997, p. 9

[39] I Manoscritti saranno tradotti dalla lingua originale solo nel 1932 da ricercatori sovietici. La prima traduzione in Italia arriverà nel 1949 a cura di Norberto Bobbio.

[40] LOUIS ALTHUSSER, Per Marx; a cura di MARIA TURCHETTO, Milano, Mimesis, 2008, p. 139

[41] KARL MARX, Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 198-199

[42] Ibidem, p.199-200

[43] KARL MARX, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 4

[44] Ivi, p. 5

[45] Ivi.

[46] KARL MARX, Per la critica dell’economia politica, cit. p. 189

[47] KARL MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in KARL MARX, Opere filosofiche giovanili, cit, p.21

[48] Ivi, pp. 21-22

[49] GAETANO PECORA, Carlo Rosselli, socialista e liberale: bilancio critico di un grande italiano. Roma, Donzelli editore, 2017, p. 15

[50] CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale, Torino, Einaudi, 1973, p.21

[51] Ivi, p. 29-30

[52] RODOLFO MONDOLFO, Umanismo di Marx: studi filosofici 1908-1966; Introduzione di Norberto Bobbio. Torino, Einaudi, 1975, p. XXXVII.

[53] CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale, cit. p. 60

[54] RODOLFO MONDOLFO, Umanismo di Marx: studi filosofici 1908-1966, cit. p. 96. Questi argomenti Mondolfo espone in un articolo pubblicato per la prima volta nella “Rivista di filosofia”, IV 1912, pp. 55-74 con il titolo: “Il concetto di necessità nel materialismo storico””

[55] Ivi, p. 106

[56] Cfr. CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale cit , p. 90-91

[57] Ivi, p. 100

[58] Ivi, p. 109-109

[59] Ivi, pp. 95-98

[60] STALISLAO . G. PUGLIESE, Carlo Rosselli: socialista eretico ed esule antifascista 1899-1937 cit,  p.109

[61] Cfr. NORBERTO BOBBIO in CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale, cit. p. 154

[62] STANISLAO G. PUGLIESE, Carlo Rosselli, cit. p. 128

[63] GAETANO PECORA, Carlo Rosselli, socialista e liberale, cit. p.95

[64] CARLO ROSSELLI, Che cosa vogliamo, in “Giustizia e Libertà” , 6 dicembre 1935, citato da GAETANO PECORA, Carlo Rosselli, cit. p.96

[65] Ivi, p.146

[66]CARLO ROSSELLI, La guerra che torna. “Quaderni di Giustizia e Libertà”, n° 9, novembre, 1933, p. 1-8, In: Internet: Biblioteca di Gino Bianco: https://www.bibliotecaginobianco.it

[67] STANISLAO G. PUGLIESE, Carlo Rosselli socialista eretico, cit, p.188

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